JOSEPH CONRAD

CUORE DI TENEBRA


1.

Al di là dei consueti temi esistenziali – la solitudine dell’uomo, la sua esposizione al rischio, alla malattia e al dolore, l’insignificanza della sua esistenza nell’immensità del creato, la necessità individuale di farsi carico "stoicamente" di questa condizione -, Cuore di tenebra è tessuto sull’opposizione tra civile e selvaggio. La natura e l’uomo primordiale sono entrambi enti selvaggi, tra i quali può mantenersi una relazione di armonia a patto che l’uomo rinunci a sfruttare e ad assoggettare la natura. Il prezzo dell’armonia, però, è il mantenersi dell’umanità in uno stato primitivo. La civiltà implica, invece, la trasformazione della natura per adattarla ai bisogni umani. Per questa via, imboccata dall’Occidente, si perviene però inesorabilmente a sfruttare la natura, rapinandola, e, infine, a sfruttare l’uomo stesso come strumento di lavoro o come proprietario di beni di cui egli non sa che farsene, e dei quali deve essere espropriato.

La storia della civiltà occidentale ha una lenta gestazione, che parte dall’Impero romano e, attraverso il medioevo mercantile, giunge, con la scoperta dell’America, alla prima organizzazione di una società il cui benessere è dovuto alla capacità tecnica di utilizzare beni sottratti ai legittimi proprietari. La scoperta dell’America è l’antesignana del colonialismo, la prima mondializzazione dei mercati fondata su scambi iniqui. Coloro che sostengono che la ricchezza dell’Occidente è dovuta, in massima parte, a meriti propri, vale a dire alla razionalità capitalistica, ignorano che le prime società per azioni sono state, a partire dal Seicento, le grandi Compagnie olandesi, britanniche, francesi, che si dedicavano al commercio con l’Asia e con l’Africa. Il carattere iniquo di tali imprese si ricava facilmente dal fatto che il commercio in questione si fondava sulla rapina, sullo sfruttamento e sulla schiavitù degli indigeni.

L’orrore del colonialismo non è mai stato visibile per i cittadini occidentali perché tra i luoghi in cui esso si realizzava e i paesi che ne ricavavano vantaggio sotto forma di materie prime da trasformare a basso costo c’era di mezzo l’infinita distesa del mare.

Nei suoi venti anni di navigazione, Conrad ha avuto un’esperienza diretta della "nobile impresa" delle Compagnie, i cui fini umanitaristici, riconducibili alla volontà di portare la civiltà presso i selvaggi, rappresentavano un’ipocrita facciata. Cuore di tenebra prende spunto da questa esperienza diretta, che a Conrad interessa non tanto sotto il profilo politico (data la sua neutralità ideologica), bensì sotto il profilo esistenziale e morale.

E’ stato scritto che Cuore di tenebra è il più bel libro anticolonialista che sia stato mai scritto. Tenendo conto della versione cinematografica ricavatane da Spielberg (Apocalyps now), si potrebbe aggiungere che esso è la denuncia più vibrante del lato occulto della civiltà occidentale, il cinismo nei confronti di tutti i popoli che non appartengono ad essa. Tanto più questa denuncia è efficace in quanto l’autore non ignora affatto l‘altra faccia, quella dinamica incentrata sull’intraprendenza, sul rischio, sulla negazione del limite.

Incarnazione di questa contraddizione è il protagonista del libro, Kurtz, una delle figure più misteriose e singolari tra quelle create da Conrad e, forse, della letteratura mondiale.

2.

Il libro è la lunga rievocazione (in flash back, si direbbe oggi) che un capitano di lungo corso – Marlow – fa di una minuscola impresa che egli ha realizzato per conto di una Compagnia: raggiungere la base più avanzata della Compagnia stessa nel cuore dell’Africa selvaggia per ricondurre a casa, per l’appunto, Kurtz che la dirige. Efficientissimo nel suo lavoro ("da solo aveva raccolto, barattato, estorto o rubato più avorio lui di tutti gli altri agenti messi insieme"), Kurtz adotta dei metodi che sono considerati dai dirigenti della Compagnia stessa controproducenti: troppo spietati o, meglio, incauti e prematuri ("Ma non si può nascondere la realtà: il signor Kurtz ha fatto più male che bene alla Compagnia. Non ha capito che i tempi non erano maturi per un'azione energica. Cautela, cautela ci vuole: è questo il mio principio. Dobbiamo andare ancora cauti. Per un po' questo distretto ci sarà precluso. Deplorevole! E il commercio ne soffrirà nel suo insieme. Non nego che non ci sia una notevole quantità di avorio, per la maggior parte fossile. Lo dobbiamo salvare a tutti i costi. Ma vede com'è precaria la nostra situazione: e perché? Perché il metodo è inadeguato." "Lei lo definisce", dissi io, guardando la spiaggia, "un metodo inadeguato?" "Senza dubbio", esclamò con calore. "Lei no?" ... ""Non c'è nessun metodo", mormorai dopo un po'. "Giustissimo", esultò lui. "Io l'avevo previsto. Testimonia di una completa mancanza di discernimento. Sarà mio dovere segnalarlo a chi di competenza.")

La Compagnia tiene al suo buon nome: ufficialmente il suo compito non è solo quello di incrementare i commerci con l’Africa, bensì anche, se non soprattutto, quello di portare colà la civiltà. La motivazione umanitaristica e civilizzatrice è la necessaria copertura di un intento meramente speculativo, che si realizza con la rapina e con la schiavitù. Privilegiando l’intento speculativo e dedicandosi senza remore alla razzia e allo sterminio, raccogliendo intorno a lui una schiera di selvaggi che lo adorano come un dio e in suo onore fanno sacrifici umani, Kurtz agisce come un pazzo, e tale è ritenuto.

Forse lo è davvero, ma lo è divenuto a partire da tutt'altre premesse. Prima ancora di conoscerlo, Marlow ne sente parlare più volte da agenti della Compagnia. Una prima volta, il giudizio, benevole, è questo: ""È un prodigio", disse alla fine. "È l'emissario della pietà, della scienza, del progresso e il diavolo sa di quante altre cose. E improvvisamente incominciò a declamare: Per dirigere a buon fine la causa che ci è stata affidata, per così dire, dall'Europa, noi abbiamo bisogno di intelligenze superiori, di vaste simpatie, di unità di intenti."" La seconda volta il giudizio, malevolo e astioso, ma non meno significativo, è colto di soppiatto da Marlow che ascolta il discorso tra due agenti univocamente orientati a considerare il loro lavoro in termini speculatrivi: ""Questa straordinaria serie di ritardi non è colpa mia. Io ho fatto il possibile." Il grassone sospirò: "Che ci vuoi fare!" "E la pestilenziale assurdità dei suoi discorsi", continuò l'altro. "Mi ha quasi asfissiato quand'era qua. 'Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla via del progresso, un centro per commerciare, certo, ma anche per umanizzare, migliorare, istruire.' Ti rendi conto... quel coglione! E vuole diventare direttore! No, è...""

Quali circostanze abbiano indotto in Kurtz un cambiamento radicale non è dato sapere. L'unica certezza è che egli nutre una profonda ambivalenza nei confronti del contesto in cui vive: lo odia, ma non può allontanarsene.

In realtà, egli è la quintessenza della civiltà europea nella sua duplice anima civilizzatrice e disumana: "Il Kurtz originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto parte della sua educazione in Inghilterra e - come ebbe la bontà di dirmi - le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L'Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e un po' alla volta venni a sapere che, molto a proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l'aveva scritto quel rapporto. L'ho visto. L'ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po' troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo doveva essere avvenuto prima che i suoi - diciamo nervi - saltassero, e lo portassero a presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che - da quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese - venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo arrivati, "dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina", ecc., ecc. "Con il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene, praticamente illimitato", ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a un'Immensità esotica retta da un'augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era questo il potere illimitato dell'eloquenza - della parola - di nobili parole infiammate. Non c'erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una specie di nota in fondo all'ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con mano malferma, possa essere considerata l'enunciazione di un metodo. Era molto semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno: "Sterminare tutti questi bruti!""

Se Kurtz è folle, non lo è certo perché egli agisce rivelando ciò che, nell’ottica della Compagnia e del colonialismo, deve rimanere nascosto, né perché, sul finire dell’ Ottocento, si comporta come Cortes o Pizzarro. Egli lo è perché l’esperienza coloniale ha realmente dissociato la sua mente. Un suo collaboratore, che lo ammira indefinitamente, afferma: ""Quell'uomo soffriva troppo. Detestava tutto di qui, e però era come se non se ne potesse staccare. Quando ne avevo l'occasione lo pregavo di andarsene, finché era ancora in tempo. Gli proposi di ritornare con lui. Accettava e non si muoveva da qui. Partiva per un'altra caccia all'avorio, spariva per delle settimane, trovava l'oblio fra quella gente, sì, l'oblio di se stesso, capisce.""

Di fatto, l’esperienza coloniale ha smascherato la sua anima ben più selvaggia degli esseri primitivi che egli sfrutta e uccide, i cui trofei (le "teste impalate") circondano la sua dimora: quelle teste "stavano solo a testimoniare che il signor Kurtz era privo di qualsiasi ritegno nel soddisfacimento dei suoi vari appetiti; che gli mancava qualcosa, una piccola cosa che, quando il bisogno diventava urgente, si cercava invano sotto la sua magnifica eloquenza. Se lui sapesse di avere questa deficienza, io non lo so. Credo che se ne sia reso conto alla fine, quasi all'ultimo istante. Ma la selva selvaggia lo aveva scovato subito, e si era presa una terribile vendetta su di lui per quella fantastica invasione. Credo che gli avesse sussurrato delle cose sul suo conto che lui stesso ignorava, cose di cui non aveva il minimo sospetto, prima di aver sentito il parere di quella grande solitudine, e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. L'eco era risuonata tanto profondamente in lui perché dentro era vuoto..." Nello stesso tempo, questo smascheramento lo ha precipitato nel’abisso della follia: "Era la sua anima che era folle. Nell'isolamento della selva selvaggia si era persa nella contemplazione di se stessa, e, per Dio! ve l'ho detto, era impazzita. Per scontare i miei peccati, suppongo, mi toccò subire quella prova di contemplarla a mia volta. Nessuna eloquenza al mondo saprebbe essere più distruttiva nei confronti della nostra fiducia nel genere umano di quanto lo sia stata la sua ultima esplosione di sincerità. Lottava anche lui contro se stesso. Lo vedevo, lo udivo. Avevo sotto gli occhi l'inconcepibile mistero di un'anima che non conosceva né ritegno, né fede, né paura e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa."; "" L'amore diabolico e l'odio celeste per i misteri che aveva penetrato si contendevano il possesso di quell'anima sazia di emozioni primitive, avida d'ingannevole gloria, di false onorificenze, di tutte le apparenze del successo e del potere.""

Kurtz infine è il "sudicio frammento di un altro mondo, l'araldo del cambiamento, della conquista, del commercio, dei massacri, delle benedizioni."

L’esplosione di sincerità che, in qualche misura lo riscatta, va ricondotta alle ultime parole che egli pronuncia, allorché, nella consapevolezza di stare per morire, la maschera viene meno: ""Una sera, entrando da lui con una candela accesa, trasalii nel sentirgli dire con voce un po' tremolante: "Giaccio qui nella tenebra aspettando la morte." La luce era a due passi dai suoi occhi. Feci uno sforzo per mormorargli: "Non dica sciocchezze!", e rimasi curvo sopra di lui come inchiodato. "Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto d'avorio vidi l'espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo, e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine, quale visione, un grido che non era che un soffio: ""Che orrore! Che orrore!""

Lèvi-Strauss ha scritto che l'antropologia, nata in Occidente, è la scienza del rimorso. Tra coloro che l'hanno involontariamente promossa occorre annoverare tutti i conquistadores e i colonialisti che, portando all'eccesso la loro cupidigia e la loro crudeltà, hanno reso necessaria una riflessione sull'altro, che essi hanno trattato come un oggetto. Kurtz è tra costoro, ma il suo tratto singolare è che al fondo dell'abiezione egli scopre l'orrore di ciò che ha fatto.

4.

Conrad non ha nulla dell'ideologo. Egli non giudica: descrive, analizza i fatti umani con una sottigliezza rara. Certo, egli disprezza dal profondo i burocrati della Compagnia per i quali l'impresa colonialista si riduce alla contabilità e al profitto (uno di essi è definito come un " Mefistofele di cartapesta"). Nello stesso tempo, egli sa che uomini come Kurtz non sono animati solo dalla logica del profitto, bensì da una motivazione più profonda. Questo riesce chiaro nella descrizione del giovane collaboratore di Kurtz: "Un incantesimo lo spingeva avanti, un altro incantesimo lo proteggeva. Lui non si aspettava assolutamente niente dalla landa selvaggia, soltanto uno spazio in cui respirare e in cui addentrarsi sempre più. Il suo unico bisogno era di esistere e di andare oltre, correndo più rischi possibile, con il massimo di privazioni. Se lo spirito d'avventura - allo stato puro, privo di qualsiasi calcolo e di senso pratico - aveva mai dominato un essere umano, era sicuramente quel giovane."

Il gusto dell'avventura, del rischio, dell'azzardo, della scoperta, dell'impresa sono autentiche motivazioni umane che permettono di comprendere il dinamismo della civiltà occidentale non meno del calcolo razionale.

Un altro aspetto tipico di questa civiltà, che Conrad rileva esprimendo ammirazione, è il gusto dell'ordine, dell'igiene, della forma. Tale aspetto è attestato dall'incontro, in una Stazione, con un amministratore della Compagnia che lo testimonia in maniera compiuta: " Vicino agli edifici incontrai un bianco, di un'eleganza così inaspettata che al primo momento lo presi per una visione. Vidi un alto colletto inamidato, polsini bianchi, una leggera giacca di alpaca, pantaloni candidi, una cravatta chiara e stivaletti di vernice. Senza cappello. I capelli divisi dalla riga, ben spazzolati, impomatati, sotto un parasole bordato di verde, sorretto da una grossa mano bianca. Era stupefacente, e dietro l'orecchio aveva una penna. "Strinsi la mano a quel miracolo, e venni a sapere che era il capo contabile della Compagnia, e che tutta la contabilità si teneva in quella stazione. Era uscito un momento, disse, "a prendere una boccata d'aria fresca." L'espressione mi parve singolarmente sorprendente, perché lasciava intravvedere una vita sedentaria in un ufficio. Non vi avrei nemmeno parlato di costui, ma è dalle sue labbra che per la prima volta è uscito il nome di quell'uomo che è indissolubilmente legato ai ricordi di quel periodo. E in più sentivo del rispetto per quel tale. Sì, del rispetto per i suoi colletti, i suoi ampi polsini, i suoi capelli ben pettinati. Il suo aspetto non era diverso da quello di un manichino, ma nel generale sfacelo di quella terra, lui rispettava le apparenze. Questo significa avere spina dorsale. I suoi colletti inamidati, i rigidi sparati erano prove di carattere. Era lì da quasi tre anni e, più tardi, non potei fare a meno di chiedergli come riuscisse a far sfoggio di una simile biancheria. Arrossì impercettibilmente e con modestia disse: "Ho istruito una delle indigene della stazione. È stato molto difficile. Aveva un'avversione per il lavoro." Così quell'uomo aveva realmente realizzato qualcosa. E si dedicava anche ai suoi libri, che erano tenuti in modo esemplare."

Se dunque Conrad non può essere tacciato di antioccidentalismo, è del tutto evidente la partecipazione che egli ha nei confronti dei negri che vengono sfruttati fino alla morte e trattati come bestie:

"Sei neri in fila si inerpicavano su per il sentiero. Camminavano rigidi e lenti, tenendo in equilibrio sulla testa delle ceste piene di terra, e il tintinnio segnava il tempo dei loro passi. Sui loro fianchi erano annodati degli stracci neri, le cui corte estremità si agitavano dietro la schiena come delle code. Le loro costole si distinguevano una a una, le giunture delle loro membra sembravano i nodi di una corda; ciascuno aveva un collare di ferro intorno al collo e tutti erano legati a una catena i cui anelli, dondolando assieme, tintinnavano ritmicamente. neanche con uno sforzo di immaginazione questi uomini si potevano chiamare nemici. Qui li chiamavano criminali, e la legge oltraggiata, come le cannonate, si era abbattuta su di loro, un mistero insolubile, venuto dal mare. I magri petti ansimanti, le narici frementi, violentemente dilatate, gli occhi pietrificati, fissi sulla collina, mi passarono accanto, quasi sfiorandomi, senza uno sguardo, con quella totale, mortale indifferenza dei selvaggi infelici."

"Delle forme nere stavano accovacciate, sdraiate o sedute fra gli alberi, appoggiate ai tronchi, incollate alla terra; per metà in risalto, per metà nascoste entro la luce incerta, in tutte le pose del dolore, dell'abbandono e della disperazione. Scoppiò una nuova mina nella rupe, seguita da un leggero fremito della terra sotto i miei piedi. Il lavoro procedeva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni dei suoi servi si erano ritirati a morire. "Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare."

"Presso lo stesso albero altri due fagotti ad angoli acuti erano seduti con le gambe ripiegate contro il corpo. Uno dei due, il mento puntellato alle ginocchia, guardava nel vuoto, in modo intollerabile, spaventoso; suo fratello fantasma si sosteneva la fronte, come se fosse schiacciato da una grande spossatezza; e tutt'intorno altri ancora erano dispersi nelle più varie e contorte pose di prostrazione e abbandono, come nei quadri di massacri o di peste."

"Il nero picchiato gemeva da qualche parte. "Che baccano fa quell'animale!", disse l'infaticabile uomo con i baffi comparendo tutt'a un tratto. "Gli sta bene. Trasgressione: punizione... Bang! Senza pietà, senza pietà."

C'è però, nel colonialismo, una violenza che va al di là di quella fisica. Conrad ce la restituisce con maestria attraverso un urlo collettivo che accoglie l'imbarcazione che viola una foresta incontaminata:

"Un grido, un grido altissimo, di infinita desolazione, si alzò adagio nell'aria ovattata. Cessò. Un clamore lamentoso, modulato su selvagge dissonanze, ci riempì le orecchie. Era talmente inaspettato che sotto il berretto mi si rizzarono i capelli. Non so che effetto facesse agli altri: quel frastuono lugubre e tumultuoso era sorto talmente improvviso, e apparentemente ovunque e simultaneo, che a me parve che a gridare fosse stata proprio la nebbia. Culminò in una precipitosa esplosione di urla acute, di un'intensità quasi intollerabile, che cessò di colpo, lasciandoci irrigiditi in una varietà di atteggiamenti ridicoli, in accanito ascolto del silenzio, quasi altrettanto spaventoso ed eccessivo… ciò che per me rendeva inconcepibile l'idea di un attacco era la natura del clamore, delle grida che avevamo udito. Non avevano quel carattere feroce che prelude a un'immediata intenzione ostile. Per quanto inaspettate, selvagge e violente, mi avevano dato un'irresistibile impressione di dolore. Per chissà quale motivo, l'apparizione del battello aveva riempito quei selvaggi di una pena infinita."

Il motivo non è affatto misterioso. Conrad lo ha già esposto con acume:

"La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino. Quello che la riscatta è solo l'idea. Un'idea che la sostenga, non un pretesto sentimentale, ma un'idea e una fede disinteressata, qualcosa, insomma, da esaltare, da ammirare, a cui si possano offrire sacrifici."

Ma può un'idea, quale che essa sia, giustificare il prezzo della miseria, dell'infelicità, della degradazione dell'altro? In un'epoca di globalizzazione, che alcuni definiscono neocolonialismo, il problema è ancora questo, e l'Occidente sembra incapace di dirimere l'intrinseca contraddizione legata alle due facce della sua straordinaria e, nello stesso tempo, "barbara" civiltà.

Ottobre 2004